mercoledì 2 ottobre 2013

Pilgrimage - Problemi a Gunsmuld 1.0

6° giorno di Decimese, Anno Santo 1533

“Burt lo Spaccafossi è un diavolo d’uomo” disse il fabbro. “Alto due metri come minimo. E largo, anche. Due spalle che tiravano dei pugni come magli. Bravo a picchiare, bravo a scopare, bravo a fare entrambe le cose insieme. C’è un motivo se lo chiamavano così.”
“Disgustoso” disse tra i denti Vitja.
“Un tempo era mio amico” continuò l’altro, occhieggiando tetro verso Salzus. “Ma gli piacevano troppo le ragazze sbagliate. Anche troppo giovani. Come la figlia del sindaco. Rubò un’arma e fuggì nei boschi. C’è chi dice che vada a commettere atti contro natura alla Pietà, e io non so più cosa pensare.”
Vitja non era solo disgustato dall’uomo su cui pendeva una taglia di cento corone, ma anche del suo datore di lavoro, che aveva smesso di essergli amico solo perché sceglieva le ragazze sbagliate da violentare, e non perché le violentasse. Si sentì fremere le mani ancora una volta, ma si trattenne.
“Beh, i frati chiedono ferri di cavallo, l’Inquisizione chiede armi proibite, e io non ho tempo per nessuno. Se vuoi andare a riscuotere la taglia o chiedere di più, straniero, vai in Via Bach, al municipio.”
“E dove sarebbe questa Via Bach?”
“Lascia stare, ti accompagno io” disse Vitja buttando da parte il grembiule. “Faccio pausa per poco, poi torno ad aiutarti.”
“Come se avessimo spazio per le pause” borbottò il fabbro, ma li lasciò andare.
Salzus si voltò un’ultima volta, facendo un cenno col cappello.
“Tornerò anch’io” disse. “Ho interesse a vedere le vostre altre merci, specialmente le munizioni, e avrò bisogno di materiali per fabbricare le mie armi… al loro giusto prezzo, ovviamente.”
"Se puoi aiutare, straniero, allora potrei anche decidere di farti mettere mano alla fucina con Vitja. Anche lui sa come metterci mano. Con voi due dovrei essere in grado di costruire in fretta quell'affare. Se poi volete costruirne altri per voi folli, alla malora! Teneteveli pure e portateveli lontano il più in fretta possibile."
“Me ne accollerò i rischi” disse Salzus. Un altro cenno di riverenza col cappello, ed era fuori, in strada, al seguito di Vitja.
“Allora, garzone?” lo canzonò dopo appena venti metri. “Che fai di bello in questa città?”
“Sono nato e aspetto di morire, si spera il più tardi possibile” rispose lui. “Nel frattempo, cerco di imparare quanto più posso.”
“Uno studioso, eh?” Salzus non prestava davvero attenzione a quello che diceva. I suoi occhi erano già puntati sulla strada, sulle persone, alle finestre, alla polvere sugli stivali e alle borse alle cinture. “E perché non te ne sei andato in un monastero, come tutti, a studiare in biblioteca?”
“Non sono il tipo da voti monastici” tagliò corto Vitja. Dentro di sé, il giovane avrebbe voluto chiedergli delle armi da fuoco e di come le usava lui, ma dirlo per strada era cercare apertamente guai.
L’altro alzò le spalle. “Beh, fa niente. Che ne sai di fucili?”
Vitja lo guardò con l’aria sconvolta di chi non riesce a capacitarsi della manifesta stupidità altrui. Salzus lo guardò senza troppo pudore. “Per strada nessuno presta attenzione a chi gli passa affianco, tranquillo.”
“Non se sei in una città piccola, e Gunsmuld non è esattamente immensa.”
Il mercenario alzò le mani in segno di scusa. “Va bene, va bene,  ne riparleremo con più calma.”
“Farai meglio” disse Vitja acido, “Anche perché sembra che ci sia movimento al municipio, e vestono quasi tutti abiti sacri. Non strafare, vorrei evitare di farmi arrestare appena arrivato.”
Il municipio era una grande casa dagli angoli in pietra, e probabilmente aveva visto tempi migliori. Era circondata da un piccolo cortile delimitato da mattoni grigi e le poche piante erano lasciate alle cure del vento e della pioggia. Il portone principale era aperto, ma molti uomini bloccavano l’ingresso vociando preghiere e discussioni in merito alla loro presenza al villaggio. Diversi indossavano un saio color cenere con una stola rossa, altri invece una tunica rossa con stola nera. Alcuni uomini, con una mantella nera sopra i vestiti da garzoni o la corazza di cuoio, con le redini dei cavalli dei chierici fra le mani e l’espressione di chi vorrebbe essere altrove e addormentato, si allontanavano verso le stalle sul retro.
Salzus avanzò senza neppure aspettare Vitja, il quale si risparmiò la figuraccia che il mercenario fece provando a passare alle spalle di un vecchio scriba picchiettandogli sulla spalla.
“Indietro, sudicio viandante!” esclamò il drappello di chierici, indignato dall’atteggiamento impertinente del nuovo arrivato. Salzus avanzò ugualmente, fendendo la folla. Vitja lo seguì a testa bassa. Ad un certo punto osò chiedere se potessero indicargli l’ufficio di riscossione taglie, ma ricevette solo burberi ammonimenti.
In realtà Vitja non credeva assolutamente in Eos, non ci credeva con tutta la sua forza, ma sapeva che finché abitava in un paese dove era religione di stato, c’erano diverse regole di convivenza da seguire. Una fra tutte, il rispetto dell’autorità, che Salzus sembrava aver cancellato a schioppettate dal vocabolario insieme alla parola ‘discrezione’.
Intanto Salzus, penetrato nell’anticamera, anch’essa piena, si era ritrovato faccia a faccia con un vecchio scriba deciso a non levarsi.
“Fuori dai piedi!” sbraitava. “La Chiesa ha la precedenza. Sappiate rispettare il vostro posto, indigeni!”
Una mano ingioiellata cadde dolcemente sul petto del vecchio, spingendolo con decisione di lato, mentre due occhi più decisi guardavano Salzus negli occhi. Peccato che quelli del mercenario si fossero fermati all’altezza del petto, dove una stola di seta nera, impreziosita da piccole gocce rosse scintillanti, pendeva dal collo del prevosto.
“Non badate al vecchio Hans” disse l’uomo. “A volte non sa quel che dice. Ma non indugiate oltre, il sindaco è a colloquio con il nostro signore, l’Inquisitore Angkar Trevenbaum. Non sappiamo quali affari portino qui il nostro superiore, ma in quanto parte del suo seguito inquisitoriale, dobbiamo seguirlo. Attendete fuori, vi prego.”
“Sono qui per occuparmi della taglia su Spaccafossi” disse fermo Salzus, “E non me ne andrò senza aver ricevuto informazioni.”
“Sono sicuro che all’ufficio dello sceriffo troverete chi possa aiutarvi” disse serafico il prevosto. Salzus incontrò finalmente il suo sguardo: era quello di un uomo in apparenza cortese, ma probabilmente lo disprezzava ancor più di quanto non facesse Hans stesso. Annuì e fece dietrofront, lottando contro la marea di preti e monaci che aveva oltrepassato all’ingresso, non perdendosi a notare gli arazzi ammuffiti, probabilmente comprati ad un mercato povero per cercare di dare un tono all’ambiente ufficiale e degradante della città.
Vitja, seccato, cercò di fare dietrofront scacciando i monaci con un lieve gesto e raggiunse Salzus nel giardino, dove questi sembrava aspettare proprio lui.
“L’ufficio dello sceriffo?” chiese poco dopo.
“L’ufficio dello sceriffo.”
Vitja sospirò. “Di qua,” disse.

Ad appena cinquanta metri dal municipio, di nuovo sulla via principale, faceva capolino sulla destra una costruzione bassa, molto più spartana, e sicuramente più solida. Una veranda di fronte all’edificio recava una rastrelliera, e un paio di travi di legno come copertura. Una guardia armata di balestra, seduta in veranda, accennò ad alzarsi, ma Salzus lo fermò con un cenno, bofonchiando “Sono qui per la taglia”, al che la sonnecchiosa sentinella si riassestò al proprio posto.
All’interno un uomo dai folti baffi a manubrio, con un’uniforme leggera e una spada al fianco, sedeva dietro una scrivania. Un’altra guardia ciondolava nei pressi di una porta sul retro, mentre da un corridoio a destra arrivavano le flebili lamentele dei prigionieri.
Il mercenario si diresse verso l’uomo seduto dietro il tavolo, che gli riservò un’occhiata lunga e penetrante, e chiese della taglia. L’uomo, senza dire una parola, gli porse uno dei volantini che Salzus aveva già notato in giro per la città. Sul foglio, stampato su carta di pessima qualità, era rappresentato un uomo dal collo taurino, la faccia larga, la barba sfatta, delle cicatrici sugli zigomi, la fronte corrucciata coperta da pochi ciuffi di capelli spioventi.
Lo prese, lo guardò, quindi riportò lo sguardo sullo sceriffo.
“Credete di essere in grado di catturare lo Spaccafossi, stranieri?” chiese senza mezzi termini. “Non ci servono perdigiorno o cadaveri. Potete riportarlo indietro?”
“Non so quanto tempo potrei…” si fermò un attimo a guardare Vitja, che stava sulla soglia,  poi si corresse: “…potremmo metterci. Potrebbe darci una mappa della zona, sceriffo?”
“Arrangiatevi” berciò lo sceriffo. La guardia vicino alla porta sbirciò dentro e si unì alla conversazione. “Siete alle prime armi, eh? Siete sicuri di quello che state facendo? Andare in giro per la regione senza un’idea di chi o cosa potreste incontrare?”
“Sono affari nostri” lo zittì Vitja, per poi dargli le spalle.
“Ne rispondo personalmente io di tutti i mentecatti che decidono di ammazzarsi per soldi facili, quindi è decisamente un mio problema” lo rimbeccò lo sceriffo.
“Non accadrà” disse Salzus. “Ci dica dove andare e uccideremo quel tipo.”
“Nutro seri dubbi,” “Quelli che mi preoccupano sono i fatti. Spero che tu sia più bravo in battaglia di quanto fossero i cacciatori precedenti, straniero. Non basta una lama e un po’ di fortuna a buttar giù lo Spaccafossi.”
“Ci tengo alla mia pelle, tranquillo” disse Salzus. “Allora, questa mappa?”
“Se vi aspettavate di entrare qui e ricevere aiuto nel dimostrare che siete più bravi di me a fare il mio lavoro, siete capitati male” disse il fremente tutore dell’ordine.
“Allora perché mettere la taglia a disposizione dei cittadini?” chiese Vitja, perplesso.
“Ordine del sindaco” bofonchiò l’uomo da sotto i baffi. “A quanto pare, neppure Gunsmuld si fida delle forze dell’ordine di Gunsmuld. Ma le cose cambierann-”
“Questo invece è un ordine mio!” lo interruppe bruscamente Salzus, sbattendo una mano sul piano da lavoro dello sceriffo, ottenendo così la sua completa attenzione, più quella delle due guardie in vista e quella di Vitja, che più di tutti era preoccupato dell’andamento della discussione. “Mi aspetto che mi fornisca mappe della regione, e che mi faccia avere dettagli su dove è stato visto per l’ultima volta il fuggitivo. Glielo ordino, siamo agenti dell’Inquisizione! Non mi costringa a riportare la sua mancata collaborazione ad Angkar Trevenbaum!”
Vitja strabuzzò gli occhi. Lo sceriffo fece altrettanto, ma per un attimo i suoi baffi fremettero. Guardò ancora una volta l’uomo che aveva davanti, lo squadrò da capo a piedi, quindi guardò Vitja che aspettava, teso, sulla soglia. Poi un angolo della sua bocca si stirò in quello che voleva essere un crudele accenno di sorriso ma che risultò più come una smorfia di seccatura.
“Chi vuoi prendere in giro?” disse in tono gelido. Vitja iniziò a fare un paio di passi verso l’esterno, intuendo cosa stava per succedere. “Due uomini dell’Inquisitore Trevenbaum sono passati oggi per chiedere informazioni e supporto. Loro avevano delle insegne dell’Inquisizione e non puzzavano di strada, al contrario di voi due! State cercando di approfittarvi dell’organo più sacro di Eosmeria per il vostro tornaconto, e spacciarsi per agente della Sacra Inquisizione…”
È eresia, completò dentro di sé Vitja, cercando di mettere della distanza fra sé e quello sciocco straniero. Forse, con un po’ di fortuna, avrebbero arrestato solo lui…
“… è eresia. Guardie! Prendete questi due pezzenti e sbatteteli in cella! Ci penserà l’Inquisizione a loro.”
Oggi, evidentemente, non era la sua giornata fortunata.
“Cosa diavolo dici, idiota! Non usare il plurale così facilmente, ti conosco appena!” provò a sbraitare in direzione di Salzus, ma questi, alzando le spalle come per dire beh, almeno ci ho provato, scattò a sorpresa, oltrepassando in un baleno la guardia che aveva appena fatto un passo nella sua direzione, alzando la balestra troppo tardi per intercettarlo. L’altra guardia annaspava in direzione di due grossi ceppi e Vitja gridò nuovamente, stavolta in direzione delle guardie: “Io sono venuto qui ad accompagnare quest’uomo, per lavorare e fare il mio dovere! Non sono un inquisitore e non ho mai detto d’esserlo!”
“Allora non muoverti, idiota!” disse la guardia coi ceppi in mano. “E tu, resta fermo dove sei!”
“Spiacente!” disse Salzus, facendo ancora una volta il suo beffardo cenno di saluto col cappello. “Quanto a te, compagno inquisitore” disse sottovoce a Vitja, “se sopravvivi, ci vediamo alla Pietà!”
Vitja era paralizzato, bloccato sul posto e ancora stupefatto, fra l’assurda idiozia di quel furfante scavezzacollo e la propria stupidità nell’essersi accodato a lui in quella giornata senza senso. Registrando appena con la coda degli occhi il bugiardo patentato che scappava alle sue spalle, Vitja guardò la guardia che aveva affianco passare oltre, all’inseguimento del fuggitivo, lo sceriffo che metteva mano alla spada e sbraitava ordini agli altri uomini in caserma e la guardia armata di ceppi che avanzava verso di lui.
La vista dei ceppi lo terrorizzò. Se l’avessero arrestato, anche liberandosi dell’accusa di cui l’aveva coperto quell’idiota armato di lasso e fucile, probabilmente sarebbero risaliti al fabbro e alle armi da fuoco. Il fabbro non se la sarebbe cavata comunque (dubitava che l’Inquisizione avrebbe confermato lo scottante incarico assegnato al pover’uomo) ma con ogni probabilità avrebbe cercato di porre distanza fra sé e Vitja accusandolo di avere armi da fuoco prima ancora di essere giunto in officina.
E poi gli tornò in mente il rogo, l’esplosione, le voci, il processo sommario. Ricordò padron Mikhail e i ceppi che aveva ai polsi, così simili a quelli che stavano arrivando per i suoi.
Si riscosse.
Tanto prima o poi mi avrebbero scoperto, o me ne sarei andato lo stesso, disse a sé stesso. Quell’idiota ha solo accelerato le cose.
“Non ho fatto niente di male, non mi farò arrestare o torturare dall’Inquisizione per nulla!” sbottò spintonando la guardia che inseguiva Salzus e scappando in strada. L’uomo armato di balestra inciampò e rotolò giù per i pochi gradini della veranda, ma Vitja era di nuovo in strada. Decidendo che tornare direttamente alla forgia era stupido tanto quanto seguire il mercenario dalla lingua lunga, decise di imboccare una viuzza poco più avanti e seminare le guardie. Sentì ancora una volta il grido dello sceriffo che chiamava a raccolta uomini, e quando era ormai fuori dal loro campo visivo udì risuonare la campanella dell’allarme. Corse più forte, più in fretta, fino a farsi bruciare i polmoni: non sapeva se gli fossero già alle calcagna, ma non aveva tempo di girarsi a controllare.
Girò in un’altra via, e in un’altra, e poi in un’altra ancora. Girò un angolo e finalmente si fermò un attimo a riprendere fiato e a guardarsi intorno. Per buona misura, alzò il cappuccio del mantello, anche se il tempo non preannunciava pioggia e nonostante qualche umida nuvola di foschia nel cielo pomeridiano c’era ancora un timido sole.
Fece in tempo a girarsi e notò un paio di soldati di pattuglia che guardavano in giro, allertati dalla campana. Uno di loro lo notò, e sebbene non l’avesse riconosciuto, alle spalle di Vitja stavano sopraggiungendo i primi inseguitori. Fecero due più due ed avanzarono a passo svelto, le armi alzate, ma Vitja scattò di lato e percorse frettolosamente il vicolo cieco fino al muro che, a giudicare dal rumore dall’altro lato, lo separava dall’affollata strada principale. Senza curarsi del pericolo alle sue spalle, saltò su un barile nei pressi e spiccò un balzo a braccia tese, afferrando il bordo del muro. Sbatté con tutto il corpo contro la parete del muro, ma ignorò il dolore e si issò su mentre i due uomini alle sue spalle, più pesanti e meno agili di lui, rovesciavano goffamente il barile nel fallimentare tentativo di imitarlo. Si ritrovò in cima al muro, a sbirciare sul vicolo che riportava sulla strada principale, più a nord rispetto al municipio. L’altezza era non poca, e anche appendendosi prima di lasciarsi cadere, a Vitja scappò un’imprecazione di dolore all’atterraggio.
Si rialzò in fretta e si diresse verso la via principale. In quel momento c’erano meno persone del solito, ma bastavano perché si confondesse fra loro.
O almeno così pensava. Si voltò un attimo verso destra, e vide un paio di alabarde svettare al di sopra delle teste dei paesani. Pochi secondi dopo Vitja riconobbe chi le impugnava: soldati con un giustacuore rosso sopra la corazza di cuoio. Non guardie cittadine, ma sgherri dell’Inquisizione. Al loro fianco stava accorrendo una delle guardie che inseguivano Vitja. Non avevano ancora scorto né lui né il suo mantello, ma evidentemente cercavano lui.
Lo sceriffo ha pensato di chiamare anche qualche soldato al soldo dell’inquisitore per essere sicuro di battere a tappeto le strade, pensò. Si volse, cappuccio teso sul capo, e proseguì facendo finta di niente. Alcuni rumori concitati lo indussero a girarsi nuovamente, e vide i soldati più vicini. Si rese conto che stavolta si erano accorti di lui in mezzo alla folla e ora cercavano di raggiungerlo spintonando i paesani ignari che si trovavano fra lui e loro.
Iniziò a guardarsi intorno, disperato e frenetico. Cosa poteva fare per rallentarli?
C’erano diverse bancarelle, ma creare confusione fra di esse poteva rallentarlo a sua volta e probabilmente lo avrebbero preso lo stesso. Adocchiò un’impalcatura poco stabile vicino ad un edificio in costruzione, ma abbandonò anche quell’idea: c’erano degli operai lì sopra, e non poteva metterli a rischio solo per scappare.
La fortuna gli mise davanti un carretto pieno di zucche. Vitja sorrise, si avvicinò in fretta e, prima che il proprietario se ne accorgesse, tirò un calcio alla base del palo che teneva alzato il retro del carro e scartò subito di lato in una viuzza interna. Si lasciò alle spalle un rombo liquido di zucche che rotolavano in terra e l’unica cosa che lo inseguì per le vie più desolate fu il grido dei soldati bloccati dalla frana fruttifera.
Soddisfatto della riuscita del proprio stratagemma, Vitja si concesse una breve risata mentre correva verso la forgia, e non potè fare a meno di pensare a quell’idiota di Salzus El Bat, che con quella sua impertinente spavalderia li aveva cacciati in quel casino, e si sorprese a domandarsi se quel mercenario scavezzacollo si fosse salvato.

Salzus El Bat era decisamente più nei guai di quanto volesse dare a vedere. Andare a sinistra era un azzardo, significava andare più vicino al municipio e a tutti quei servi dell’Inquisizione. Tornare sui suoi passi era fuori discussione. Andare a destra era noioso e prevedibile, e non aveva voglia di correre in mezzo alla gente, di schivare paesani e contadini in una gara di velocità sulla lunga distanza fra vicoli che non conosceva, una gara che non era sicuro di vincere.
Al contrario, davanti a sé, e sopra, sembrava un’ottima idea per la sua mente troppo ardita.
Di solito essere arditi era sufficiente a fregare il prossimo. E poi dubitava che quelle guardie sonnacchiose fossero abituate alle scorrazzate in cima ai tetti.
Dall’altra parte della strada, vicino alla veranda della caserma da cui era appena uscito, sostava un carro. La rincorsa gli bastò per saltare a bordo e da lì saltare e appendersi ad uno dei balconi. La presa delle sue dita resse, ma non riuscì ad issarsi su in tempo per schivare uno dei quadrelli delle balestre d’ordinanza delle guardie. Il proiettile lo colpì di striscio sotto la natica facendo ugualmente un male porco, ma ebbe il vantaggio di spronare Salzus ad arrampicarsi più velocemente. Altri due quadrelli saettarono intorno a lui, ma colpirono le finestre vicine, frantumandole con rumore squillante e causando non poco disagio tutt’intorno.
“Bel lavoro, fessi!” gridò mentre si issava finalmente sul tetto. Si volse mentre gattonava sulle tegole e vide una guardia che annaspava nella sua direzione poco sotto di lui. Strappò una tegola dal tetto con irruenza e la gettò giù, ma la guardia scalatrice dovette intuirlo per tempo, perché si strinse contro la parete schivando il proiettile improvvisato. Salzus non restò insoddisfatto, però, perché udì comunque un urto sordo, come contro un elmetto, e un insulto colorito da parte di una seconda guardia, poco sotto della prima, che aveva iniziato la scalata al seguito della prima ma che era stata meno accorta.
Non sentendosi troppo in colpa per quello che aveva appena fatto, fece scivolare un piede verso il basso senza troppa galanteria e colpì sul volto la prima guardia. Il colpo fece vacillare ed infine crollare l’uomo, che rovinò dolorosamente addosso al secondo. Salzus rise, si accorse di altri quadrelli che gli sibilavano intorno, quindi si affrettò a guadagnare la cima del tetto alla svelta e a scomparire oltre il bordo, dall’altro lato.
Percorse qualche metro in diagonale sull’altro lato prima di scendere in un cortile posteriore che faceva al caso suo. Circondato da una piccola staccionata, il cortile conteneva un capannino per gli attrezzi di dimensioni esigue – giusto quel che serviva per nascondere una persona. Più abituato di Vitja, si lasciò cadere e, come un gatto, atterrò in relativo silenzio. Il piano era nascondersi nel capanno, aspettare che le guardie arrivassero sul tetto, guardassero in giro e deducessero che avevano perso il fuggitivo. Avrebbero certamente continuato a cercarlo, ma se lo sarebbero fatto scappare e lui avrebbe approfittato dell’occasione per allontanarsi dalla città. E, già che c’era, mentre era nel capannino poteva vedere se c’era qualcosa di valore da rubare.
“Signore, lei è un ladro?”
Stava già frugando nel capanno per vedere se oltre all’ovvia utilità pratica il nascondiglio celava oggetti utili o di valore da poter rubacchiare, ma la vocina lo portò a girarsi: davanti a lui c’era un bambino dall’aria curiosa e dai capelli rossi.
“Come mai ti interessi di ladri? Un ometto della tua età non dovrebbe pensare a queste cose.” Come niente fosse, continuò a frugare fra gli attrezzi del capanno. Scappare all’improvviso avrebbe fatto gridare il bambino, e gli avrebbe fatto saltare la copertura.
Il bambino restò interdetto, a guardare il misterioso adulto che era comparso nel suo cortile. Salzus lo guardò un secondo, poi fece la faccia più simpatica che poté e alzò le spalle. Dopo un po’, il bambino trotterellò via placido, e Salzus tirò un sospiro di sollievo. Constatando che non c’era nulla di utile a parte un po’ di corda e di chiodi, si infilò nel capanno e chiuse la porta dietro di sé.
“Mamma, c’è un signore strano nel capanno” gli arrivò ad un tratto la voce del bimbo da dentro la casa. “Se è Papa Genus posso avere i miei doni in anticipo?”
“Maledetto marmocchio” bofonchiò Salzus uscendo in fretta e furia dal suo nascondiglio compromesso.
Da dentro si udì un concitare di voci, tra cui una squillante e ansiosa voce femminile. Alzò lo sguardo, e vide due guardie fare capolino dal bordo del tetto da lui già varcato.
Lo guardarono.  Lui guardò loro.
Loro armeggiarono ricaricando le balestre e quando rialzarono lo sguardo su di lui lui era già una macchia distante lungo la via sul retro. Spararono un paio di colpi, ma fu inutile.
Salzus si fermò solo quando fu fuori dal loro campo visivo, e per buona misura mise altri trecento metri tra sé e il punto dove aveva smesso di veder guardie. Ansimando, si sedette a terra in un angolo. Alla fine, si era comunque trattato di una corsa a perdifiato. Non troppo scoraggiato, ma ancora lievemente irritato, si concesse un minuto di pausa prima di rimettersi in movimento. Era già fuori dal centro città, per cui era già sulla buona strada per la Pietà. Fiducioso di poter riscuotere la taglia lo stesso (usando qualche stratagemma che si sarebbe inventato lungo la via), Salzus El Bat ripartì alla volta del vecchio avamposto schiavista abbandonato che sorgeva vicino alle temute fosse, e si domandò se il ragazzo che aveva incontrato alla forgia fosse riuscito a cavarsela.

Erasmo varcò la soglia della forgia e non fu sorpreso del sobbalzo del fabbro al vedere la sua figura, ammantata dalle vesti oracolari. L’uomo tremava ma cercava di nasconderlo, e assai male, tra l’altro.
“Cosa posso fare per vossignori?” provò a dire, diretto alla figura incappucciata. Erasmo tacque, cercando di ricordare con esattezza quello che gli era stato ordinato. “Il mio superiore, Sua Autorevolezza l’Inquisitore Angkar Trevenbaum, richiede che il frutto del vostro lavoro eretico sia confiscato; acconsentendo a fare ciò, vi sarà condonata la pena, a patto che dimentichiate questi eventi e il contenuto dei progetti che vi sono stati inviati.”
“Eh?” chiese il fabbro, terrorizzato.
Erasmo sbuffò. “Vuol dire che dovete consegnarmi il manufatto che stavate costruendo. La pistola, l’attrezzo eretico. Quella e i progetti. Datemeli e nessuno verrà a sapere nulla, ve lo garantisco.”
“Voi… voi siete un Oracolo?” mormorò timoroso il fabbro.
Erasmo sbuffò una seconda volta. Perché i timorati di Eos non rispondevano mai direttamente alle domande ma rimanevano immersi nell’adorazione? Da quel punto di vista era persino meglio avere intorno Obiano e Celtiberi, che anche ritenendolo inquietante, perlomeno erano sufficientemente dissacratori da non fargli i salamelecchi ogni volta che aprivano bocca. E per cosa, poi? Per l’abito? Quella era solo stoffa. Era dei poteri dell’Oracolo che dovevano avere paura, e quelli non li aveva visti quasi nessuno. Nessuno di ancora vivo, perlomeno. I pochi ancora in vita erano i membri dell’Inquisizione venuti ad indagare nel suo villaggio dopo quell’orribile notte di molti anni fa, e si erano limitati a fare delle supposizioni. Da lontano.
“I piani e la pistola. Per favore.” Rimarcò ulteriormente il tono sulle ultime due parole con un tono seccato. Il fabbro, maneggiando nervosamente un martello mentre si avvicinava ad un panno di stoffa posto su un ripiano, guardò Erasmo, poi i due Soldati Penitenti al suo seguito. Erasmo aveva Obiano e Celtiberi alle sue spalle, quindi non poteva vedere le loro espressioni, ma a giudicare da quella del fabbro, dovevano essere stati esplicitamente minacciosi. Un altro motivo in più per sopportarli con più pazienza fra un incarico e l’altro.
Finalmente il pover’uomo raggiunse il pezzo di stoffa, che evidentemente conteneva la pistola, e si avvicinò a porgerla ad Erasmo, ma Celtiberi avanzò e prese l’oggetto dalle sue mani sudate, sudice e tremanti.
“N-non è completa…” iniziò a dire, ed Erasmo lo guardò da sotto il cappuccio, con quella che voleva sembrare perplessità. Purtroppo, da sotto un cappuccio molte espressioni vengono fraintese, e questo era uno di quei casi. Il fabbro si ritrasse, tremebondo, ma Erasmo lo fermò con un cenno della mano, e aggiunse un cenno del capo affinché continuasse. “Vedete, la vostra… compagnia è venuta anche a commissionarmi una fornitura di ferri di cavallo, e con così tanti ferri e così poco tempo… il mio nuovo assistente se ne sarebbe dovuto occupare ma… n-non è qui ora-”
“Un garzone?” disse Erasmo. “Sa dell’arma? Lo avete messo a parte di progetti per armi da fuoco? Progetti proibiti?”
Il fabbro gemette. “Lui sapeva! Armeggiava con quegli affari ancora prima di-”
La sua voce si perdette sotto l’improvviso frastuono di un paio di pentole e di pinze che cadevano fragorosamente le une sulle altre, e tutta l’attenzione si spostò sulla figura incappucciata che stava recuperando la sua roba dal cantuccio ove l’aveva posata quando era arrivato. Il cappuccio dell’uomo si sollevò appena da mostrare un uomo giovane, asciutto, con un volto spigoloso e una barba corta. Il suo sguardo era un concentrato d’odio diretto non ad Erasmo o ai suoi sgherri, ma al fabbro.
“Fermo!” esclamò Erasmo, ma la figura fuggì immediatamente dalla porta sul retro, ed Erasmo trattenne Celtiberi dallo scappare all’inseguimento. Aveva in mano gli schemi per l’arma eretica e il prototipo incompleto; era meglio restare dov’era, e dare più tardi la caccia al fuggitivo.
“Suppongo che fosse il vostro assistente” disse. “Diteci di più. Subito.”
Il fabbro si torceva le mani con aria affranta, le parole che uscivano a fiumi. “Ex-assistente, ormai” disse amaramente. “Puzzava di guai. Tutta questa giornata puzzava di guai.”
“Che significa?”
“Era arrivato stamattina presto, appena dopo la campana del Mattiniero. Aveva con sé un’arma proibita, una grande, più lunga; la teneva avvolta in un panno. Ha chiesto di lavorare qui e io ho acconsentito, e quando ha visto i piani ha intuito di che si trattava, e mi ha detto che poteva aiutarmi. A quel punto abbiamo messo a punto la maggior parte dell’arma insieme, quando poi è arrivato quel folle…”
“Chi?”
“Un uomo, un mercenario, forse. Un altro folle con armi proibite. Oh, per Eos…”
“Chi era quest’uomo? Si conoscevano?”
“Non lo so, credo di no, ma andavano d’accordo, forse fra eretici ci s’intende! Io non c’entravo niente, mi ha chiesto della taglia sull’assassino, sapete, dove si nascondesse, e io gli ho detto di andare al municipio…”
“Come, al municipio?”
“Ma sì, intendevo per chiedere informazioni! Burt non si nasconderebbe nel posto dove lavora il padre della ragazza che ha fottuto- oh, perdonatemi, Oracolo, sono desolato”
“Conoscevate il fuggitivo accusato degli omicidi recenti?”
“Omicidi? Sapevo solo che aveva usato violenza su-”
“Lo conoscevate?”
“Per amor del cielo, tutti conoscevano Burt Spaccafossi in città, era un ubriacone locale, era famigerato! Io a quei due ho detto solo che secondo me si nasconde alla Pietà, ma è solo una voce, per Eos, perdonatemi…”
“Abbiamo sentito abbastanza” lo interruppe Erasmo. Si voltò verso i suoi due alleati e carcerieri. “Avete sentito il fabbro. Abbiamo i piani, abbiamo il manufatto. Consegnamo a Trevenbaum il tutto, e poi cerchiamo di riagguantare il nostro eretico.”

“Dunque abbiamo due eretici in città, oltre ad un assassino stupratore che potrebbe essersi macchiato di infami crimini contro il popolo di Eos” ricapitolò Trevenbaum, fissando l’arma parzialmente disassemblata  poggiata sul suo tavolino. Angkar Trevenbaum era un uomo brutalmente frugale per gli alloggi, e anche la sua stanza era stata privata di orpelli nonostante gli fosse stata riservata una meravigliosa suite in virtù del suo status. Aveva ricevuto Erasmo direttamente in camera sua, addirittura interrompendo brevemente le sue preghiere per ricevere l’arma da fuoco e le notizie che l’Oracolo portava con sé.
“Esatto, di cui almeno uno è in fuga” aggiunse Erasmo.
“Lo sono entrambi” disse Agostino, anch’egli presente durante il rapido resoconto. “Ho avuto notizia da alcuni dei nostri soldati che due uomini erano in fuga dalla caserma dopo essersi presentati esigendo informazioni sul ricercato e spacciandosi per agenti dell’Inquisizione.” Rise brevemente, sottolineando quanto sciocca quell’idea potesse sembrargli. Lo sguardo di Trevenbaum lo azzittì immediatamente, seguito dalla rimbeccata sul fatto che suddetti idioti erano sfuggiti alle forze dell’ordine.
“Beh, tutti gli indizi di eresia e crimine indicano questa Pietà di cui tutti vanno parlando” concluse Erasmo. “Partiamo subito, potremmo anche riuscire a coglierli di sorpresa o intercettarli lungo la strad-”
“Non faremo nulla di tutto ciò” disse Trevenbaum freddo. “Abbiamo ancora indagini da fare in città. Questi due eretici verranno raggiunti dal lungo braccio della giustizia di Eos. Ma non ora. Siamo appena arrivati e mobilitare le forze senza neppure considerare il resto della città è semplicemente stupido. Dobbiamo mandare dei soldati a difendere le povere suore di Trieme-Gusch, dobbiamo interrogare e sanzionare questo fabbro per aver costruito armi eretiche…”
“Ma il fabbro lo ha fatto su suo ordine!” sbottò Erasmo. “Mi era stato detto di riferire che sarebbe stato perdonato per questo!”
“Hai detto bene, ti è stato ordinato di riferire.”
Erasmo fremeva sotto il mantello oracolare. “Ma…”
“Niente ma, Oracolo Erasmo. Dovresti preoccuparti solo di fare il tuo dovere e bruciare gli eretici che io ti comando di bruciare. Altrimenti, la prossima volta potresti esserci tu, sul rogo! Sono stato chiaro?
“Cristallino” rispose gelido Erasmo, ma l’indignazione furoreggiava ardente appena sotto la pelle, nelle vene, nei muscoli contratti. “Sono congedato?”
“Sei congedato. Che Eos ti guidi. Ah, un’ultima cosa” aggiunse, con la gravità di un macigno in ogni sillaba. “Ti ricordo che al fabbro era stato richiesto di costruire armi eretiche, non anche di ospitare e collaborare con eretici. È comunque colpevole, e sarà punito per la sua eresia.”
Erasmo chinò la testa e proseguì, uscendo dalla camera, ma non rispose. A farlo ci pensò una delle voci nella sua testa, la voce di sua sorella.
Conosco qualcuno che invece non sarà punito per ogni colpo che sparerà con quella pistola, disse. Erasmo non poteva che essere d’accordo.
Sai cosa dovresti fare? disse la voce. Dovresti proprio andare a fare una visitina alla Pietà e a quei furfanti, da solo!
“Da solo? Oh, no” disse a bassa voce. “Proprio ora che Obiano e Celtiberi iniziano a starmi simpatici…”
“Dicevi nulla, Oracolo?” chiese Obiano, che attendeva in corridoio.
Erasmo scosse leggermente la testa. “Stavo solo pregando per la riuscita della nostra prima missione vera e propria, da soli. Gioite, andiamo a catturare quegli eretici di cui si parlava prima. Alla Pietà.”
“Missione da soli?” disse Celtiberi, la cui massima aspirazione era di continuare a fare il facchino per Trevenbaum indossando un’armatura ufficiale e ricevere vitto e alloggio per il resto dei suoi giorni con tutto il tempo libero da dedicare ad alcol e donne (quando non doveva badare ad Erasmo). “Siamo sicuri che sia una buona idea?”
“L’Inquisitore Trevenbaum ci ha dato carta bianca” mentì Erasmo. “E poi, di cosa avete paura? Qualsiasi cosa incontreremo, non può essere peggio di me, giusto?”
Obiano rise. Celtiberi un po’ meno, perché aveva più immaginazione.
“Non so, mi sembra comunque qualcosa di pericoloso, andare a caccia di eretici da soli” disse. “Non possiamo avere dei rinforzi?”
“E dire addio alla possibilità di una promozione? Da Soldati Penitenti a Sergenti effettivi delle truppe della Santa Inquisizione?” disse Erasmo.
Obiano era posseduto da un improvviso spirito puritano. “Come l’esercito, ma niente rischi da campo di battaglia! Pensa, Beri, non dobbiamo neppure prendere i voti!”

Erasmo notò la scintilla negli occhi di Celtiberi. Era fatta.

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